Chi
chiede continuamente, a gran voce, "più regole" sarebbe bene fosse il
primo a rispettarle, le regole. Invece così non è: perlomeno in Italia.
È
il caso di quanto sta succedendo al trasporto pubblico di Roma. Da
giorni, i macchinisti della rete metropolitana stanno interrompendo il
servizio pubblico di trasporto senza aver indetto uno sciopero formale,
ma semplicemente incrociando le braccia.
Romani
e turisti si sono trovati ad aspettare la metropolitana anche per
un'ora, senza alcun preavviso, nemmeno un biglietto ai tornelli.
Sul
sito Atac, si legge che i rallentamenti sembrano dovuti a iniziative
individuali «dovute all'applicazione anche al personale operativo del
sistema automatico di rilevazione delle presenze». In soldoni, alcuni
(quanti?) dipendenti non vogliono sottostare al controllo dei tornelli
per la presa e l'uscita dal servizio. Perché il messaggio arrivi chiaro e
tondo, semplicemente si rifiutano di lavorare.
Si
tratta di legittimo esercizio del diritto di sciopero per protestare
contro una nuova condizione lavorativa, peraltro di evidente buon senso?
A noi sembra più interruzione di pubblico servizio.
La
differenza è chiara, norme alle mano. La legislazione, già in vigore,
impone determinate formalità perché l'astensione dal lavoro sia
legittimo esercizio di un diritto. Formalità che, a Roma, sono state
bellamente ignorate: nessuno ha dato preavviso, nessuno ha apertamente
indetto uno sciopero, la Commissione nazionale per gli scioperi non ha
certificato un servizio minimo garantito.
Cosa
diremmo di un'azienda privata che, ricevuta in appalto la fornitura di
un servizio essenziale, decidesse unilateralmente di smettere di
occuparsene, per spuntare un contratto migliore?
Nessuno "assolverebbe" il proprietario o il manager dell'impresa.
In
questo caso, abbiamo davanti dei dipendenti di una società pubblica che
scelgono di non lavorare, per protesta contro il controllo del rispetto
dell'orario di lavoro. Nonostante un articolo del codice penale che
qualifica tale comportamento come reato, nonostante una legge che
prevede quali sono le forme di contestazione legittime, nonostante
un'autorità indipendente chiamata a sorvegliare sul rispetto di tale
legge.
Non sono "regole" anche queste? Perché non fa nemmeno notizia, che vengano bellamente ignorate?
L'amara
risposta sta nel fatto che le relazioni sociali e industriali nel
nostro paese sono stabilite a prescindere dalle "regole". I sindacati le
invocano per gli altri: ma quelle che riguardano loro non sono che un
accidente passeggero.
Non
bastano le leggi e le autorità di controllo perché si risponda delle
proprie responsabilità. Occorre che il circuito venga attivato.
Occorrerebbe, nel caso romano, la immediata risposta dell'azienda
pubblica, e se questa non dovesse avvenire, l'immediata risposta del
Comune di Roma e del suo sindaco, al quale i vertici dell'azienda
pubblica rispondono. L'afonia dell'una e dell'altro ne certifica non
solo l'indifferenza nei confronti del cittadini: ma anche, quel che è
peggio, la debolezza verso i prepotenti.
Nel
frattempo, gli utenti del monopolistico servizio pubblico, al di là di
tentare la disperata via di denuncia di interruzione di pubblico
servizio, non hanno alternative.
Sono
sudditi impotenti: privi della libertà di scegliere una concorrenza che
non c'è, umiliati dalla prepotenza di chi si sottrae, indisturbato, al
più banale dei controlli.
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